Arte e Architetture di Montefabbri
Situato su una collina, lungo l’antica direttrice che collega Pesaro a Urbino, annoverato dal 2006 tra i borghi più belli d’Italia, Montefabbri rivela subito al visitatore il suo antico impianto architettonico. Il castello, con la sua imponente porta urbica, la cinta muraria medievale, i suggestivi vicoli e la pieve di San Gaudenzio, ricca di opere in scagliola, che costituiscono un unicum in tutte le Marche.
La porta d’ingresso al castello conserva l’antica arcata, che sorregge la rampa d’accesso, in sostituzione del medievale ponte levatoio, i cui cardini sono ancora visibili nel vestibolo. Dal 1600, una formella in pietra arenaria, con un bassorilievo raffigurante la Madonna del latte (del XV sec.), si staglia sulla parte superiore del portale.
Oltrepassato l’androne, si accede al paese e, nella parte interna del vano, campeggia lo stemma araldico in marmo bianco del conte Francesco Paciotti, sormontato dalla torre portaia e, dal 2009, la piccola sala al suo interno ospita eventi culturali ed esposizioni artistiche.
L’edificio in mattoni a vista, affacciato sulla piccola piazza dirimpetto all’ingresso, fino al 1833, era sede del Palazzo municipale (struttura non visitabile) e la sagoma tondeggiante in facciata ricorda l’originale collocazione dell’orologio, che si trova alloggiato sulla sommità della torre campanaria della pieve di San Gaudenzio.
Il girone di mura del XII secolo costituisce la prima fortificazione di Montefabbri, costruito per difendere l’abitato, non ancora castello, dalle continue incursioni da parte dei signori di Rimini, di Urbino e dallo Stato della chiesa, che si contendevano il possesso del territorio, per la sua posizione strategica. All’interno della cinta muraria, come anche nelle fondamenta di alcune delle piccole case del paese, sono state scavate anticamente alcune grotte, usate sin dal medioevo per sortire fuori dal castello in caso di pericolo o per nascondere vettovaglie, come accadde durante il secondo conflitto mondiale.
Il sistema viario è rimasto pressoché immutato, con i pittoreschi vicoli che si snodano a raggiera lungo la cinta muraria, regalando allo sguardo del visitatore attento scorci da cartolina, in cui il panorama, dal tratto di mura a sud, abbraccia Urbino, le Cesane, i monti Carpegna, Catria, Petrano e, sullo sfondo, il massiccio del Nerone; verso nord, lo sguardo si spinge oltre la sottostante vallata del Foglia, fino alla costa romagnola e a San Marino.
Nella parte sud-est di via delle Mura, sono affacciate su uno slargo un gruppo di abitazioni modeste, che hanno sostituito il porticato a doppia loggia della sontuosa residenza della famiglia Paciotti, feudatari del castello, di cui resta memoria nell’ultimo arco a tutto sesto, che sormonta un balconcino di una delle case e la piccola nicchia che lo fiancheggia. Fino alla metà dell’Ottocento, il palazzo occupava lo spazio lungo via del Baldo, accanto alla pieve e, nel luogo in cui si trova l’unica caffetteria del paese, un tempo si apriva il portale d’ingresso della dimora signorile dei conti di Montefabbri. (Struttura non visitabile)
… mezzo miglio fuori della terra (i Paciotti) cominciarono pure un palazzo a mo’ di villa, con doppio ordine di logge, il quale, estinta la famiglia e venuto in potere del comune, fu da quei terrazzani demolito (dopo il 1774), non rimanendone più alcun vestigio. (Andrea Lazzari, Memorie istoriche dei conti e duchi di Urbino, 1795).
Senza il suo bel palazzo comitale, Montefabbri è stato purtroppo privato di un’importante testimonianza del suo passato.
Dinanzi alla porta urbica si apre via del Baldo, l’arteria principale che conduce alla pieve e, in fondo alla via, svetta la torre campanaria (XV sec.), con i suoi venticinque metri di altezza. In prossimità del campanile, fino alla metà del XIX secolo, esisteva un arco, che costituiva un passaggio di collegamento tra la residenza comitale, la cui mole occupava parte del vicolo, e l’edificio sacro. Durante i lavori di ampliamento e restauro della pieve e del palazzo signorile, intercorsi tra il 1660 e 1670, il conte Guidobaldo Paciotti volle infatti costruire una sorta d’ingresso privilegiato all’interno del tempio, attraverso il quale, da uno stanzino sovrastante la sacrestia, i signori di Montefabbri potevano ascoltare le funzioni liturgiche.
Menzionata nei documenti come una delle quattro pievi più antiche della diocesi di Urbino, quella di Montefabbri, dedicata a San Gaudenzio, primo vescovo di Rimini, sorse probabilmente intorno al IX secolo. In posizione dominante, isolata su un poggio dal quale controllava tutta la vallata, la pieve rappresentava un punto di riferimento importante per pellegrini e viandanti che attraversavano queste contrade e, intorno all’anno Mille, la scarsa popolazione che viveva nelle campagne circostanti iniziò a costruirvi intorno le proprie case e più tardi si dotò di una cinta muraria, per difendersi dalle continue guerre e devastazioni.
Le volontà del conte, che commissionò il disegno del prospetto della pieve all’architetto romano Carlo Rainaldi (1611–1691) vennero disattese e così la fastosa facciata barocca, che avrebbe voluto il Paciotti, restò invece grezza e incompleta, ma come uno scrigno, custodisce l’insospettabile bellezza del suo interno.
Oltrepassando l’arco a tutto sesto del portale in bugnato si accede alla chiesa, con il suo impianto ad aula unica, in cui si aprono due cappelle sul lato sinistro e tre nicchie, dotate di altari, a destra.
Un’epigrafe, accanto alla cantoria testimonia che nel 1613 fu consacrata la chiesa, mentre l’altra lapide reca la data 1670, quando la pieve venne ampliata e decorata con pregevoli marmi, grazie al conte Guidobaldo Paciotti.
Sulle massicce pareti della pieve si sussegue un nutrito gruppo di tele del XVII e del XVIII secolo, ma la ricchezza e il fascino del luogo è costituito dai numerosi paramenti che ornano la cantoria, gli altari, così come le lastre, le cornici e le balaustre, finemente decorati in scagliola. La scagliola, detta anche “pietra di luna”, è una particolare lavorazione artistica, la cui genesi remota proviene dalla zona di Carpi e risale al XVII-XVIII secolo; con materiali poveri, come la polvere di gesso, essa riesce a imitare materie pregiate, quali marmi, pietre dure e metalli preziosi. Le splendide balaustre della pieve di Montefabbri, in cui i candidi intarsi di fiori, volute, racemi e scene narrative risaltano su una base nera, costituiscono un unicum nel panorama scultoreo di tutta la regione: datate 1687, tutte del medesimo autore, Silvestro da Carpi, queste mirabili opere d’arte minore sono state definite le più antiche delle Marche.
La piccola vasca ricavata da un cippo marmoreo di età romana, nella parete sinistra della chiesa, costituisce parte dell’originale battistero della pieve e, secondo la tradizione orale, in questo bacile venne battezzato il beato Sante, nel 1343. Nativo di Montefabbri, Giansante Brancorsini, il cui corpo riposa dal 1394 nel convento dei frati minori di Santa Maria in Scotaneto a Mombaroccio, era un giovane milite, che uccise un suo parente con un colpo di spada, per legittima difesa; sconvolto da questo evento, abbandonò la carriera militare a soli venti anni, per dedicare la propria vita alla preghiera e all’espiazione delle sue colpe.
Nella seconda nicchia, a sinistra dell’ingresso, ricavata da un ambiente del campanile, si trova una cappella, realizzata in stile goticheggiante, che custodisce le spoglie di Santa Marcellina, martire e vergine romana, morta nel V secolo D.C., che vennero traslate dal cimitero di Ciriaca a Roma nel 1666, per volontà del conte Guidobaldo Paciotti.
Da tempi remoti, le celebrazioni annuali, in memoria di Santa Marcellina, si tengono l’ultima domenica di luglio, quando la teca contenente le sacre spoglie viene condotta in processione lungo le vie del paese. Un tempo, nel cuore del castello, si svolgeva la secolare fiera di Santa Marcellina, durante la quale venivano esposti i prodotti dell’agricoltura biologica, degli antichi mestieri e dell’artigianato locale, a cui facevano da cornice ideale spettacoli ed eventi culturali e ludici.
Uscendo dalla porta di accesso al castello, a ridosso della rampa, sulla sinistra c’è l’antico lavatoio pubblico d’inizi Novecento, dotato di tre vasche, che nel 2019 è stato sottoposto a un accurato restauro ad opera dell’amministrazione comunale, restituendo alla popolazione una preziosa testimonianza della cultura rurale, legata alla tradizione e alla storia del borgo.
La piccola frazione di Cagolino è raggiungibile attraverso una suggestiva strada, percorsa nella seconda metà dell’800 da un gruppo di masnadieri, che fece la storia del banditismo locale e cioè la banda di Terenzio Grossi.
Cagolino, o Ca’ Golino, era la villa del castello, in cui abitava parte della popolazione di Montefabbri, che non aveva più spazio all’interno delle mura. La località deve il suo nome all’antica famiglia Ugolini, signori del luogo, che a fine ‘500 commissionarono la graziosa cappella dedicata alla Beata Vergine, in origine decorata ad affresco, che venne demolita e riedificata nel 1638 (Struttura non visitabile). La piccola località, fino al XVI secolo, era denominata Serraglio, il cui toponimo deriva dal latino volgare serraculu(m), col significato di serrare, chiudere, accerchiare. In questo senso può essere accolta l’interpretazione del toponimo come “accerchiamento nei confronti dei nemici”, data la vicinanza con Montefabbri, propugnacolo del ducato di Urbino.
Lungo la via s’incontra una dimora signorile di pendio di origine medievale, con un ingresso ad arco a tutto sesto, celato da una fitta vegetazione, che la tradizione orale riconduce alla casa natìa del beato Giansante Brancorsini. (Struttura non visitabile)
Sul ciglio della strada sorge la piccola cappella di Sant’Andrea, edificata negli anni ’50 del Novecento, in memoria dell’antica chiesa omonima medievale, demolita nel secondo dopoguerra, che era situata nelle vicinanze. Si segnala al suo interno l’altare originale in pietra, recante un’iscrizione in latino, che testimonia la presenza delle reliquie di Sant’Andrea Apostolo, di papa Sisto IV e di Santa Concordia, che in passato erano deposte nella sacra mensa.
Come ogni paese e borgata Cagolino ha il suo antico forno comunitario in pietra. Legato al ciclo del grano, l’uso del forno pubblico è connesso alla socialità e alla produttività del paese, dando continuità a pratiche consuetudinarie, legate alla cultura alimentare e alla panificazione. Un’altra testimonianza della tradizione rurale di Cagolino è il lavatoio pubblico in pietra, dotato di due vasche, luogo fondamentale d’incontro e di aggregazione, per questa piccola comunità.