Coldelce, Serra di Genga e Monteviole
La regione Marche è costellata da paesi abbandonati o scarsamente abitati, dei quali resta traccia nella toponimia e nella memoria collettiva, come i perduti castelli di Coldelce, di Genga, di Ripe, di Monteviole, scomparsi secoli fa, ma dove il ricordo del loro passato resta impresso nel bosco, emblema di questo territorio, nei ruderi dell’antica pieve di Sant’Eracliano e nella chiesa privata di San Giovanni Battista a Serra di Genga.
Della pieve di Sant’Eracliano oggi resta la facciata, che resiste ancora all’incessante logorio del tempo, e un cumulo di pietre e mattoni, sopraffatto dalla vegetazione che abbraccia buona parte delle strutture superstiti. La storia di questo tempio iniziò tra l’VIII e il IX secolo e narra dell’esistenza di sei chiese, di cui tre parrocchiali, quattro castelli e un monastero, sottoposti alla sua giurisdizione spirituale, la cui presenza è testimoniata da numerose fonti archivistiche.
Tra l’VIII e il IX secolo nacque la pieve, una sorta di “cattedrale” di queste contrade, poi verso il XII o il XIII secolo fu probabilmente costruito il castello di Coldelce, distante dalla chiesa madre, fuori le mura, in direzione nord-est rispetto l’ubicazione attuale e su un piccolo pianoro.
Le prime notizie sull’abitato castellare si hanno dal 1400, quando venne costruito un oratorio dedicato a Santa Veneranda all’interno del castello, per ovviare all’eccessiva distanza dalla pieve, ma soprattutto per le continue lotte di fazione tra guelfi e ghibellini, che non rendevano sicure queste campagne e, successivamente, a causa delle guerre che sconvolsero l’intero territorio. La cappella, con accanto la casa del pievano, costituì una succursale della chiesa madre e con il tempo divenne la chiesa principale. In quello stesso periodo, all’esterno delle mura sorsero le prime case rurali sparse, che costituirono l’insediamento del borgo, chiamato “Pendici”, nel luogo in cui oggi sorge la country house “La Celletta” e l’attiguo giardino.
Coldelce (il cui fitoponimo deriva dal latino Collis Illicis, colle dell’elce, o del leccio), come gli altri nuclei fortificati della zona, subì l’influsso del ducato di Urbino dalla seconda metà del ‘400, vivendo di riflesso lo splendore del Rinascimento della città. Alcuni dei numerosi artisti, attivi presso la corte ducale, scelsero questi castelli come luoghi di residenza, mentre la popolazione forniva militi che andavano a ingrossare le fila delle milizie del duca.
Dalla fine del 1500 iniziò la piccola era glaciale, con conseguenti carestie, crisi demografica ed economica, che progressivamente peggiorò quando il ducato di Urbino fu devoluto allo Stato Pontificio nel 1631.
Con il tempo, le famiglie nobili e gli ecclesiastici crearono grandi latifondi, che si sostituirono agli esigui appezzamenti di terra dei piccoli possidenti locali, i quali ricavavano magri guadagni dalle coltivazioni di cereali, dalle rendite boschive e dalla pastorizia.
Durante i primi anni dell’Unità d’Italia, la banda di Terenzio Grossi irruppe anche a Coldelce e quando la guardia nazionale iniziò a rastrellare la zona, alcuni abitanti finirono in carcere con l’accusa di connivenza.
Oltre alla scarsa fertilità del terreno, Coldelce venne abbandonata a causa della sua posizione decentrata, rispetto alle principali vie di comunicazione verso la valle del Foglia e, al progressivo abbandono del centro abitato, dagli anni ’50 del Novecento seguì lo spopolamento delle campagne.
Nel 1840 fu ricostruita la chiesa madre su progetto di Giovanni Corsini, geometra e capomastro originario di Urbino e, a fine ‘800, venne aggiunto il tetto a cupola che sormonta la torre campanaria.
Dalla seconda metà del Novecento, ci fu l’abbandono e la maestosa pieve divenne gradualmente un’enorme cava di pietre e colonne, frutto della negligenza dell’uomo e dell’opera inesorabile del tempo, finché non venne alienato quel poco che era rimasto dell’arredo sacro e che i vandali avevano risparmiato.
Oggi le affascinanti rovine della pieve di Sant’Eracliano, ormai priva dell’antica copertura a vôlta, mostrano ancora le linee architettoniche neoclassiche e la rendono un luogo suggestivo, nel quale si riesce a cogliere al meglio l’armonia fra cielo, pietra e terra, incorniciato dal lussureggiante bosco di Coldelce, che insieme alla piccola chiesa privata di San Giovanni Battista a Serra di Genga, rappresentano gli unici testimoni silenti di civiltà antiche che oggi meritano di essere raccontate.
Un profondo burrone separava la pieve medievale di Sant’Eracliano, dal castello di Monteviole, sovrastato dal Monte Busseto, dove secoli fa c’era un convento; il villaggio, ubicato in una posizione isolata, distante dalle principali vie di comunicazione, perse per questo la sua importanza già dal 1400. Quando il nucleo fortificato fu soppresso, i pochi abitanti si trasferirono nel borgo più a nord, nella villa, poi denominata Serra di Monteviole (l’oronimo serra si riferisce al crinale collinare allungato sul quale sorge l’abitato).
Alla popolazione venne poi unita una parte della comunità del vicino e più importante castello di Genga e il nome del luogo venne mutato in Serra di Genga, costituito come ora da abitazioni sparse, che avevano come punto di riferimento la chiesa di San Giovanni Battista. L’antica parrocchiale del castello di Monteviole, documentata da una pergamena del 1069, era situata nelle vicinanze del nucleo fortificato. Dopo il crollo dell’edificio nel 1500, venne ricostruita nel 1576 a Serra di Genga, esattamente nel luogo in cui si trova l’attuale tempio, vicino alla strada principale. Alla fine del XVIII secolo fu riedificata ex novo, dopo aver demolito il fatiscente edificio cinquecentesco.
La facciata in mattoncini e l’impianto architettonico in stile neoclassico è molto simile a quella della pieve di Sant’Eracliano. L’interno è semplice e ad aula unica, gli altari erano un tempo sormontati da dipinti secenteschi a olio su tela, alcuni dei quali sono conservati presso la chiesa di Santa Maria Annunziata a Morciola: come una Crocefissione con la Vergine, Santi e il committente, attribuita alla scuola di Claudio Ridolfi e un’Annunciazione, copia di quella omonima, che Guido Reni dipinse per la chiesa barocca di San Pietro in Valle a Fano. Degna di menzione è un’interessante scultura policroma, conservata in una teca, che ha come soggetto una Madonna con Bambino del 1700, che rappresenta un’importante testimonianza di arte minore sacra di tipo devozionale, riccamente agghindata con simboli mariani e con lembi di tessuti nuziali donati dalle giovani spose, secondo un’antica tradizione risalente all’epoca greco-romana, che venne poi bandita dalla chiesa nell’Ottocento, in quanto profana.
Si segnala la presenza di alcuni sepolcri terragni datati 1796, due piccole porte in legno di ciliegio del ‘700 ai lati del presbiterio e l’elegante cassettiera barocca nella sacrestia.
Vicino all’abitato di Serra di Genga, fino al 1400 esisteva un altro castello, che desunse il nome dalla genga, il terreno marnoso che caratterizza le pareti franose della collina sul quale sorgeva. Fuori dalle mura del castello di Genga, attraversando il ponte levatoio, un ripido pendio conduceva nel borgo sottostante chiamato “La Valle”, che era nel territorio del castello di Ripe (nel comune di Montelabbate), ma a ridosso di Genga.
Gran parte dei terreni in questo luogo, nel XV secolo, appartenevano a una famiglia, che prese il nome del posto, il cui capostipite era Piero di Andrea delle Genghe, nonno dell’illustre pittore Girolamo Genga.
Nel 1548, al tramonto della sua brillante carriera artistica, Girolamo Genga scelse di trascorrere gli ultimi tre anni della sua vita, nella quiete della sua casa, in località La Valle.
Oppresso da una terribile febbre, si spense l’11 luglio 1551.
Essendo poi ritornato da Mantova già vecchio, se ne andò a stare in sua villa, presso Urbino, detta la Valle, per riposarsi e godersi le sue fatiche, nel qual luogo, per non star in ozio, fece di matita una Conversione di San Paolo, con figure e cavalli assai ben grandi e con bellissime attitudini. (“Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori” 1568, Giorgio Vasari).
Il tempo e l’incuria degli uomini hanno cancellato ogni traccia di chiese e castelli, inghiottiti dalla vegetazione. I nuclei abitati di Coldelce, Monteviole, Genga nel territorio di Colbordolo di Vallefoglia e Ripe di Montelabbate sono scomparsi per sempre, eppure questi luoghi conservano un fascino singolare e le rovine della pieve sono ancora lì, fulgido esempio di architettura ottocentesca, maestosa e quieta, che merita di tornare a vivere.