
Costanza Monti
Costanza Monti (Roma 1792 – Ferrara 1840), letterata e poetessa. Figlia di Vincenzo Monti e moglie di Giulio Perticari, rese Sant’Angelo in Lizzola un luogo di ritrovo di molti illustri personaggi del primo Ottocento e dell’alta società marchigiana e romagnola. Nonostante le avversità della sua giovane vita, si dedicò assiduamente agli studi, componendo il poemetto L’origine della rosa e un commento sulla Divina Commedia.
Costanza, figlia del celebre Vincenzo Monti e di Teresa Pikler, nacque a Roma il 7 giugno 1792. La vicinanza del padre le consentì di avere una formazione religiosa e di entrare in contatto con un elevato ambiente culturale. Sfumato il suo progetto di matrimonio con l’esule greco Andrea Mustoxidi, ostacolato dalla madre, poiché non all’altezza della figlia dal punto di vista sociale ed economico, fu costretta a sposare il conte Giulio Perticari, nonostante fosse noto a tutti, che quest’ultimo avesse una relazione con Teresa Ranzi, figlia di una domestica e che avesse avuto da lei un figlio, al quale non fu mai riconosciuta la paternità. Il matrimonio si svolse nel 1812, nella cappella Monti a Maiano, dopo lunghe trattative, poiché venne avanzata dai Perticari un’eccessiva richiesta dotale.
Costanza conobbe presto il clima di diffidenza e di freddezza nei suoi confronti, all’interno della famiglia del marito, anche se la convivenza le fu alleviata dall’affetto della suocera e della cognata. Venne, tuttavia, inserita nell’ambiente culturale e mondano della Pesaro Ottocentesca, grazie a Giulio Perticari e a suo cugino Francesco Cassi. Dopo due anni, l’infelice matrimonio venne, pertanto, coronato dalla nascita di un figlio, che Perticari chiamò Andrea, come l’altro illegittimo, la cui vita durò meno di venti giorni.
Continuarono, malgrado tutto, le frequentazioni dell’alta società pesarese, che diedero a Costanza la possibilità di fare la conoscenza di personaggi di spicco, come Stendhal, di passaggio a Pesaro, che scrisse “lei conosce il latino meglio di me”, riconoscendole, tra l’altro, l’indubbio fascino.
Fu proprio l’eccentricità, l’ambigua bellezza, la propensione di Costanza a voler rompere gli schemi, il suo incedere controcorrente e la sua indiscussa cultura a generare voci e pettegolezzi sulle sue presunte relazioni e ad attirare su di sé le invidie più perfide e infime, da parte delle signore e il risentimento dei numerosi pretendenti respinti, restituendone un’immagine inverosimile che, purtroppo, tuttora persiste nell’immaginario collettivo.
I coniugi Perticari entrarono in contatto anche con i letterati della scuola classica romagnola e, grazie alle frequentazioni con il suocero Monti, Giulio riuscì a realizzare la stesura del Dittamondo, della Proposta montiana, dell’edizione del Convivio e del progetto di un commento comune al poema dantesco. Costanza ebbe un ruolo fondamentale nell’esecuzione di tutte queste opere, che recano la sola firma del Perticari, ma a Costanza furono universalmente riconosciute abilità critiche e filologiche, che sono anche palesi nelle sue liriche e nel poemetto in ottave L’origine della rosa.
Nel 1816 – 1818 venne ricostruito il Teatro del Sole a Pesaro (oggi Teatro Rossini), nel cui sipario, attorno alla fonte di Ippocrene (che la tradizione orale identifica nella Vecchia fonte di Sant’Angelo in Lizzola), è rappresentata anche Costanza, intenta a suonare la cetra e altri personaggi, tra cui il marito Giulio e il padre Vincenzo.
Durante il soggiorno a Roma (1816-1818) divenne socia dell’Accademia Tiberina e dell’Arcadia. Anche nell’Urbe, Costanza lasciò un segno profondo nei letterati amici del marito, cofondatori del Giornale arcadico e in artisti del calibro di Antonio Canova e Filippo Agricola. Quest’ultimo le propose di posare, prestando il volto alla Beatrice di Dante ed eseguì per lei un ritratto, elogiato dal sonetto del padre Vincenzo “Più la contemplo, più vaneggio”, che la resero celebre. A Roma iniziò a collaborare con Baldassarre Lombardi, al commento della Commedia per un’edizione De Romanis, introducendo alcune variazioni.
Tornati a Pesaro i rapporti coniugali s’incrinarono ulteriormente, a causa dei primi segnali della malattia, che avrebbe portato Giulio alla morte e che vennero sottovalutati dai medici e dalla famiglia stessa. Il 26 giugno 1822, Perticari morì di cancro al fegato; il cugino Cassi s’impossessò dei suoi manoscritti e ne restituì solo una parte al fratello di Giulio, Gordiano, che s’impadronì anche dei libri e delle pagine trascritte da Costanza, intimando un patto (più simile a una frode) sulla restituzione della dote dopo cinque anni. Costanza rinunciò ai beni materiali, in cambio del mantenimento, da parte di Gordiano, di Andrea Ranzi, figlio illegittimo di Perticari.
Su un necrologio che annunciava la morte di Giulio venne ricordata sua moglie Costanza, come collaboratrice e compagna; in risposta, Francesco Cassi probabile pretendente respinto in passato e dunque ferito nell’orgoglio, avviò una feroce campagna diffamatoria, ordita ai danni di Costanza, alimentata dalla diffusione di un libello, manoscritto in numerose copie, in cui ella veniva descritta come traditrice e libertina.
Costanza diede alle stampe le copie delle opere paterne, scritte di suo pugno o opere di copisti, che lei controllava minuziosamente, realizzando in tal modo quello che non era riuscita a fare per il marito Giulio. Malata di cancro al seno, tre anni prima di morire, ebbe occasione d’incontrare a Livorno Andrea Ranzi, che lei amò come se fosse un figlio. Costanza Monti si spense a Ferrara il 7 settembre 1840 e le sue spoglie riposano nella chiesa di Santa Maria Addolorata, cappella del collegio delle Orsoline, che frequentò da bambina.
…Crescevi bene, piena di grazia, dottissima, un gioiello, a detta di Stendhal “elle sait le latin mieux que moi”. Poi, come sempre accade, perle ai porci. A 20 anni convolasti a nozze, non Mustòxidi, poeta greco, bruttino e poverello che a te piaceva e a papà Monti anche, ma Giulio Perticari, un conte pesarese scelto da mamma che al solito scelse per te il peggio. Pretese una cospicua dote, in cambio ti offrì titoli e corna e se provavi a prenderti i tuoi spazi, roba da niente, flirt d’intelletto, abiti strani, umor cangiante, la macchina del fango in moto andava: “Madama ne ha fatta un’altra delle sue”. Ma tu volevi solo essere qualcuno perché sapevi fare tutto, prosa, poesia, teatro, per poi non dire del tuo amato Dante, che commentavi con perizia vera. Oltre la siepe volevi volare, così convincesti Giulio a trasferirvi a Roma, la tua città. Che tua, però non era più. “Gente oziosa, ladra e peggio se vi è, qual contrasto fra Roma antica e Roma ora meschina” scrivevi disperata. E se Canova ti chiamava anima bella, nella Biblioteca Vaticana non potevi entrare, eri una donna, nei salotti del Papa non volevi, eri Costanza, il signor conte continuava a rincorrere sottane, ebbe anche un figlio, il tuo morì neonato. Dopo due anni, tornaste a Pesaro, più lontani che mai. Perticari si ammalò, i medici sottovalutarono, morì. Contro di te l’inferno, dicevano perfino l’avessi avvelenato. Fu tutto un combattere, per discolparti, per la tua dote e intanto mamma e papà invecchiavano male. Quando, finalmente, dalle tue Orsoline, ti rifugiasti a tirare il fiato, nel petto un sussulto: il primo segnale del tumore che ti portò via, a nemmeno 50 anni.
(Testo estrapolato dal blog: https://pietreparlanti.it/ Si ringrazia l’autrice Annalisa Reggi)