Storia del Banditismo Cola/Grossi

Storia del Banditismo Cola/Grossi

Il banditismo locale, lungo il confine tra Marche e Romagna: un elemento fondamentale per comprendere il nostro passato e il nostro presente. In particolare narreremo alcune vicende, che costituiscono la storia della provincia di Pesaro e Urbino, limitando però il racconto al territorio della bassa valle del Foglia e in particolare di Montefabbri, durante la seconda metà dell’Ottocento. Infatti, nel corso del secolo, le terre di confine tra Marche e Romagna sono state teatro di scorrerie, da parte di briganti e contrabbandieri, sia durante il governo pontificio, che del Regno d’Italia. 
ANTONIO COLA 

 

Nella prima metà dell’Ottocento, nel comune di Montefabbri gli abitanti vivevano in condizioni di estrema indigenza e, come se non bastasse, alcuni componenti dell’amministrazione comunale erano corrotti, falsificavano i magri bilanci, vendettero in maniera illecita la documentazione dell’archivio del municipio. 

 

In quel periodo, vennero anche messi in atto numerosi furti, appositamente programmati da quegli stessi individui che avrebbero fatto la storia del banditismo, in queste zone. 

 

In un territorio compreso tra San Giovanni in Marignano, Gallo di Petriano e Carpegna, prima dell’Unità d’Italia, operava una “conventicola armata”, capeggiata da Antonio Cola, detto Fabrjzi: declassato dal rango di piccolo proprietario terriero a quello di bracciante agricolo, in un terreno che, tra l’altro, era un tempo di sua proprietà, iniziò la sua carriera di brigante, ma senza costituire mai una vera e propria banda. Operò per più di vent’anni, con azioni legate al contrabbando di polvere da sparo, tra Urbino e San Marino e rapinando mercanti e viandanti, che percorrevano la Flaminia e la strada per Urbino.  

 

Nel 1834 il Cola e i suoi compagni attuarono una rapina al Palercio di Serra di Genga; cinque anni dopo rapinarono il mulino della Giovanna, presso Auditore, partendo da Ca’ Pagnon Bianco (territorio sottoposto alla Pieve di San Gaudenzio). Nel 1856 assalirono la casa della famiglia Belanzoni di Talacchio. 

 

I soprusi, i delitti, la violenza, di cui il Fabrjzi e molti altri si macchiarono in queste zone, sono l’estrema conseguenza delle condizioni disperate, in cui viveva una consistente frangia della popolazione rurale: derelitti, alla continua ricerca di cibo e vestiario, ma feroci e violenti. 

 

Cola fu latitante dal 1834 fino al 1856, data della sua morte, quando venne ucciso a tradimento da un suo compagno in fuga, vicino Pesaro e venne sepolto a Piano della Valle, presso il paese di Gallo. 

 

Il 30 novembre 1860, le Marche entrarono ufficialmente nel Regno d’Italia, con nuove leggi, tra cui quelle riguardanti il sistema fiscale e la leva militare obbligatoria (5 anni), sottraendo in tal modo i giovani all’agricoltura e incrementando le condizioni di povertà delle famiglie dei coloni, tant’è che molti renitenti alla leva trovarono anche l’appoggio del clero antiliberale. Questa situazione alimentò il banditismo locale, riaccendendo antiche ribellioni, sommosse, vendette e delinquenza. 

 

 

LA BANDA GROSSI 

 

C’era una volta un prigioniero, alcuni dicevano fosse uno spietato, per altri invece un giusto, un coraggioso capitano per cui battersi, poiché in tempi lontani, questa Terra aspra era colma di timore e d’incertezze e della cieca consapevolezza, che a nulla poteva ambire un misero bracciante, disgraziato nella vita e nella morte. 

C’era una volta un bandito.

 

Il campo di azione della banda del Cola, subito dopo l’Unità d’Italia, venne occupata da un gruppo di masnadieri: la Banda Grossi, capeggiata da Terenzio Grossi, la cui storia si inserisce nella generale sollevazione antiunitaria, da parte della società rurale e contadina, contro gli oppressori e contro i ricchi. Dal 1861 al 1862 questi briganti agirono in modo incontrastato per tutta la provincia di Pesaro Urbino, avendo come base logistica il paese di Gallo di Petriano, in cui la famiglia di Terenzio Grossi, originaria di Urbania, dimorava stabilmente. 

 

 

TERENZIO GROSSI e la sua Banda

 

La valle del Foglia era una terra di mezzadri e braccianti, in cui la banda reclutava i propri uomini e anche Terenzio Grossi in giovane età  lavorò come bracciante. 

 

Era nato a Urbania nel 1832, ma appena ventenne, dal 1854 venne più volte arrestato dal governo pontificio, per furti, contumacia e violazione del precetto politico, cioè eluse l’obbligo di svolgere un onesto mestiere, rispettando il coprifuoco. Si arruolò latitante con i rivoluzionari garibaldini nel 1860, sperando che il nuovo Stato Sabaudo gli concedesse l’amnistia, ma ciò non avvenne. 

 

Deluso, riprese la sua latitanza, radunando renitenti alla leva e disillusi dalla politica, per opporsi al dominio piemontese. 

 

Il Grossi iniziò la sua attività con una serie di furti campestri, abigeati (furti di bestiame) e grassazioni (rapine a mano armata). Evase a più riprese dalle carceri di Sant’Angelo in Vado, di Fossombrone e in quelle di San Leo. Egli agí con la collaborazione di alcuni contadini, combattendo inizialmente le truppe pontificie, poi quelle del nuovo Stato, sparando sugli stemmi sabaudi, occupando paesi, contrastando le forze armate. 

 

 

FURTI CAMPESTRI, BRACCIANTI E BANDITI

 

Un’importante quota della popolazione rurale era dedita al furto campestre, con proporzioni di massa: gli agricoltori erano dei miserabili, che vivevano di questo e che avevano a disposizione ogni sorta di armi.

 

Il periodo era molto particolare, larga parte della popolazione rurale non aveva fiducia nelle istituzioni e, nelle campagne attorno a Montefabbri, era un continuo girovagare di briganti e così si diffusero le rapine a mano armata, sulla strada dei Forquini, avvenute non solo per mezzo della banda.

 

Gran parte dei compagni del Grossi erano, non a caso, braccianti o casanolanti (avevano cioè la casa a pigione) e ciò significava che vivevano in uno stato di estrema indigenza. L’illegalismo del nord delle Marche s’inserí durante la delicata fase di transizione dal potere pontificio a quello sabaudo, poiché la gente vi vedeva la possibilità di modificare illegalmente la propria miserabile condizione, prendendo a piene mani tutto ciò che poteva. Era una forma di banditismo sociale, che trovò appoggio e protezione della grande massa contadina. 

 

 

LA LEVA OBBLIGATORIA 

 

Il fenomeno del banditismo venne agevolato da una difficile situazione economica e sociale, poiché c’era stato un cambiamento, in cui ci fu una politica liberista, opposta al protezionismo pontificio, con l’imposizione di basse tariffe doganali e soprattutto l’introduzione della leva obbligatoria: fattori che si sovrapposero alla crisi già in atto della società rurale. 

 

Nella valle del Foglia c’era la mezzadria che aveva da tempo creato debiti, che gravavano sui coloni e che, come conseguenza, creò un notevole numero di braccianti che, fino a pochi anni prima, erano stati essi stessi proprietari terrieri, come Antonio Cola. Poi però le scarse retribuzioni e la povertà facilitarono la nascita di una malavita di sussistenza, dedita a furti campestri. 

 

 

ARMI DA FUOCO A BASSO COSTO E VAGABONDI ARMATI 

 

Per tutto l’800 ci fu un vasto mercato di armi da fuoco a basso prezzo, per cui numerosi giovani braccianti e renitenti alla leva, circolavano col fucile in spalla, divenendo così precursori del brigantaggio. 

 

La leva obbligatoria causò, inoltre, un forte incremento di vagabondi armati e di gente disposta ad aggregarsi al brigantaggio. Vagabondi erano le molte persone armate, come il cacciatore senza licenza, il disertore, il predicatore, le persone che transitavano verso le fiere ed i mercati. 

 

La Banda Grossi venne infatti formata anche da molti “soci” occasionali, creando un vasto esercito di ”manutengoli”. 

 

 

GLI AVVENIMENTI

 

Il 9 Dicembre 1860 La Guardia Nazionale di Montefabbri (La Guardia Nazionale era una milizia isolata, senza un sostegno logistico da parte dell’esercito, composta da giovani braccianti e artigiani locali, privi di una vera coscienza politica)  perlustrò la piana del Foglia, in cerca di disertori provenienti dalla vicina Romagna. Il drappello si avvicinò alla casa del predio Poderetto (la prima casa a sinistra dell’attuale strada che da Pontevecchio porta a Talacchio), appartenente alla Fraternità di Urbino, ma abitata dai Bartolomei: una numerosa famiglia di coloni, sospettati di offrire rifugio ai renitenti alla leva militare. Le guardie entrarono in casa e, nello scontro, venne ucciso un componente della famiglia e ci furono numerosi feriti da entrambe le parti.

 

Nel frattempo, Terenzio Grossi capí che non solo lo Stato Sabaudo non gli concedeva l’amnistia, ma era anche ricercato dalla giustizia del nuovo governo, per i fatti commessi durante la dominazione pontificia e si diede alla macchia, trascinando con sé suo fratello Marco, nella sua vita scellerata. 

 

La banda di Terenzio Grossi operò su un vasto territorio collinare, evitando sempre le zone costiere: le sue imprese nacquero tra le colline, le valli, le montagne e i boschi, nei piccoli paesi dell’entroterra, per poter avere facile scampo e rifugi più sicuri. 

 

I sentieri, che correvano lungo i crinali, erano stati precedentemente battuti da altri malviventi, come i contrabbandieri e i grassatori, i quali avevano creato veri e propri percorsi, con luoghi di sosta lungo le strade che conducevano a San Marino, in Romagna, Umbria e Toscana. 

 

La sera dell’8 Gennaio 1861, nel paese di Gallo di Petriano, un gruppo di finanzieri, che stazionavano qui con le guardie nazionali, andarono a bere, disarmati, all’osteria. Improvvisamente irruppero nel locale Terenzio Grossi e suo fratello Marco, entrambi armati. Un militare reagì, ma venne ferito, mentre agli altri venne dato l’ordine di abbandonare il paese (luogo di residenza del Grossi) e la vicenda finí con una bevuta riconciliatrice. 

 

Montefabbri era un vecchio castello medievale, ubicato sulla vetta di un ubertoso colle, sulla riva sinistra del Foglia. All’epoca dei fatti che stiamo narrando, era un piccolo comune, che venne però soppresso e parte delle sue terre al di là del fiume vennero unite al comune di Montecalvo in Foglia, mentre quelle al di qua del fiume, incluso Montefabbri, vennero assoggettate a Colbordolo. 

 

Di fronte al paese, sulla riva sinistra del Foglia, passa la strada provinciale che, da Pesaro porta in Carpegna. Al di là della provinciale, nei primi mesi del 1860, era ancora segnato il confine tra lo Stato Pontificio e la Romagna, da poco soggetta al Piemonte. 

 

Per la posizione in altura e poco percorsa dalle forze dell’ordine e siccome era anche un luogo di confine, tra il 1859-1860, Montefabbri rappresentò un comodo e sicuro asilo e covo di contrabbandieri e di vagabondi, per lungo tempo, finché gli eventi cancellarono per sempre il confine della nuova Italia, sulle rive del fiume Tavollo, nonostante il Grossi e i suoi sgherri vi conservassero la loro “dimora”. 

 

Il 14 Gennaio 1861, il Grossi fece un’incursione a Montefabbri, costringendo gli abitanti a ritirarsi nelle proprie dimore, distruggendo lo stemma sabaudo e affermando che il nuovo Stato sarebbe presto finito, poiché “infame”. In paese egli non incontrò alcuna resistenza e nessuno difese le insegne sabaude. Per questo motivo, il segretario comunale lasciò la seguente dichiarazione: 

 

“Questa mattina circa il mezzo giorno è giunto in questo castello il contumace Grossi, con due de’ suoi fedeli compagni, preceduti di circa un quarto d’ora da quel suo fido Biagio Olmeda del Gallo. Appena giunti colle armi alla mano, hanno intimato di ritirarsi alle proprie case, quelli che pel castello vedevano; hanno obbligato parecchi militi a bere con loro e qui si son fatti ad intavolare discorsi contro l’attuale governo e pubblicamente dire come questo possa reggere poco più. In questo frattempo che le scrivo, essi sono dal parroco in bivacco. La sfrontatezza del Grossi e dei suoi compagni, la timidezza dei militi nazionali sono moralmente dannosissimi all’opinione del governo ed io non vedrei che la necessità di por fine a tanto pubblico inconveniente, che intimorisce i buoni, fa baldanzosi e speranzosi i tristi, colle più energiche misure. Il nido del Grossi è sempre il Gallo e i suoi dintorni. I suoi ricettatori, consiglieri e scorte sono gli Olmeda.”

 

Biagio Olmeda, nativo di Montelevecchie (Belvedere Fogliense, frazione di Tavullia), era il maniscalco di Montefabbri e membro della banda; avvisò il caporale della Guardia Nazionale, Giuseppe Cecchini, di fuggire, perché lo si voleva uccidere. Con Olmeda iniziò una fitta rete di complicità, avvertimenti e spiate, che porteranno alla fine di questo gruppo di masnadieri. 

 

Proprio a Montefabbri, il Grossi trovò i suoi primi adepti: due piccoli delinquenti del posto, Luigi Trebbi e Giovanni Battelli, detto Pietraccio. Vennero poi coinvolti altri abitanti: i Macchinizzi, i Romani, i Burnaccioni, i Semproni, l’oste del castello Agostino Ragni, l’oste di Pontevecchio Luigi Panzieri detto Borgogelli. 

 

C’era una convivenza forzata, un’omertà dettata dal terrore, una sorta di timore reverenziale, attraverso il quale Grossi (che comunque ricompensava sempre chiunque lo ospitasse, con laute mance) poté disporre a suo piacimento, del paese di Montefabbri, per l’intero anno 1861.

 

Dopo i fatti di Poderetto, inoltre, la guardia nazionale sparì da Montefabbri, le guardie doganali, che avrebbero dovuto contrastare il contrabbando, non reagivano ai soprusi dei malviventi. 

 

Oltre a Gallo e a Montefabbri, un altro luogo, sito nella bassa valle del Foglia, frequentato dal Grossi era Buca Ferrara (frazione di Coldazzo, nel comune di Vallefoglia). Il paese è sulla sinistra, in un punto in cui la strada gira e si restringe. L’osteria della Bucca di Ferrara era accanto alla strada che porta a Urbino, prima di giungere al paese di Gallo. All’epoca, la via passava vicino al locale e, sul limitare dell’aia, c’era una vecchia strada sterrata e fangosa. L’osteria era un fabbricato di grandi dimensioni, con ampie stalle e vasti sottotetti che, nei primi anni ’80 del Novecento, vessava in uno stato di totale abbandono. All’interno restava solo un camino incrostato e l’edificio era più distante dalle terre di sua pertinenza. 

 

L’osteria della Bucca di Ferrara

L’osteria della Bucca di Ferrara

 

Sul lato est si apriva un dirupo sterposo, a precipizio sul fiume, al di là del quale sorge una delle inospitali e ridide colline dell’urbinate, franose e a tratti colme di sterpi e di macchie boschive, con poche case lungo i pendii, che precedono gli antichi possedimenti ducali. 

 

Ad ovest di Buca Ferrara, oltre la strada provinciale, vi sono i calanchi, poi il terreno sale di nuovo verso gli aspri colli. 

 

La grande casa dell’osteria era circondata da querce secolari, all’epoca dei fatti e sembrava quasi una fortezza di confine tra l’aperta pianura e un oscuro territorio

 

Fu nell’osteria di Buca Ferrara, che il 6 Aprile 1861, la banda cercò rifugio e spartí la refurtiva, dopo una rocambolesca fuga tra colli, boschi e dirupi, inseguiti dai carabinieri, per aver compiuto una rapina, finita in omicidio a Villa Gostoli, a Urbania. 

 

Sempre in questa osteria tornò la banda Grossi, dieci giorni dopo, il 16 Aprile 1861, dopo aver compiuto un’altra rapina a Urbania, stavolta al Mulino dell’Arcavata. 

 

Il 20 Aprile 1861 Il Grossi e i suoi compagni vennero visti armati e appostati lungo la strada che, da Montefabbri porta a Urbino, chiedendo a tutti coloro che vi transitavano, se fosse passato di lì Giuseppe Cecchini, fabbro ferraio del paese, che era a capo della Guardia Nazionale e che propagandava idee a favore dell’unità d’Italia, per tale motivo, il Grossi lo voleva morto e, una settimana dopo, il Cecchini inviò una lettera al giudice istruttore del “Processo Bartolomei” a Urbino, dichiarando la propria preoccupazione, a causa degli atti persecutori e minacce di morte alla sua persona, da parte di Terenzio Grossi. 

 

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