Racconti di un territorio incontaminato, immobile, nella sua selvaggia bellezza:
un viaggio nelle Marche nascoste
Tra le colline che si affacciano sulla vallata dell’Apsa, tra le fitte e vaste selve di pendii rimasti immutati nei secoli, caratterizzati da scoscesi declivi alternati a boschi e campi di ginestre e rovi, si celano i resti dei “castelli sospesi tra sogno e memoria”: antichi insediamenti rurali di cui resta traccia nella tradizione orale e nei documenti d’archivio. L’antica pieve di Sant’Eracliano di Coldelce, la chiesa di San Giovanni Battista a Serra di Genga e il piccolo borgo di Coldazzo costituiscono le uniche testimonianze tangibili di un passato in cui queste terre erano punteggiate da castelli, oratori, da una pieve e da un monastero.
COLDELCE, il polmone verde della Città di Vallefoglia
Coldelce era il colle dei lecci, un territorio che oggi appare coperto da boschi, privo di insediamenti e quasi totalmente incontaminato: i ripidi pendii che degradano verso sud, accolgono una fitta macchia boschiva con roverelle, carpini, ornielli, noccioli, ma nessun leccio, che dava il nome a questo luogo. Degli antichi splendori del perduto castello di Coldelce, restano le vestigia dell’imponente pieve, dedicata a Sant’Eracliano che, benché ormai diruta, nella facciata mostra ancora la sua eleganza neoclassica.
L’asperità del terreno, le carestie, gli eventi naturali e la povertà hanno spinto gli uomini che abitavano questi luoghi ad abbandonare le loro case e sopra i ruderi degli antichi abitati, la Natura ha riconquistato i suoi spazi.
Su una collina, dalla sommità tronca e pianeggiante, posta a nord di Coldelce sorgeva sul terreno marnoso il castello di Genga dove, tra ciliegi selvatici e pruni, è ancora possibile vedere frammenti di laterizi, che testimoniano l’esistenza dell’antico abitato. Alle pendici del colle, c’era “la Valle”, il borgo del castello, in cui il pittore, architetto Gerolamo Genga trascorse i suoi ultimi giorni nella quiete della sua villa, a metà del XVI secolo.
A sud-ovest di Genga, un altro luogo fortificato scomparso: Monteviole, sovrastato dal Monte Busseto, che un tempo accoglieva un monastero benedettino e che oggi dona panorami di singolare bellezza.
SERRA DI GENGA
Verso nord, c’è Serra di Genga, il borgo del castello di Monteviole, in cui tuttora è presente la piccola chiesa rurale, intitolata a San Giovanni Battista di fine ‘700, ricostruita nel luogo in cui sorgeva l’omonimo tempio cinquecentesco. Nelle parti più impervie di questo crinale domina la macchia mediterranea, dove trovano rifugio volpi, tassi, molte varietà di uccelli e soprattutto il cuculo, il cui canto risuona in primavera lungo tutta la vallata.
COLDAZZO
Dell’antico castello di Coldazzo restano poche case sparse di antica origine, adagiate su un colle, situato sul versante sud-occidentale del Monte di Colbordolo; la chiesa di San Lorenzo domina la piccola piazza del borgo, resistendo tenacemente all’incuria e alle intemperie. Circondato da ubertosi terreni, screziato da macchie boschive di roverella, cerro, acero e castagno, Coldazzo è in parte ancora aggrappato alla mezzadria, che per molti secoli lo ha caratterizzato.
Del ricordo degli antichi “castelli sospesi tra sogno e memoria” restano anche i numerosi sentieri, un tempo percorsi da pellegrini, viandanti, compagnie di ventura. Sono terre che hanno conosciuto gli strepitii degli assedi, come quello che l’esercito di Sigismondo Malatesta inflisse all’antico castello di Coldazzo, nel 1446. Luoghi impervi, che furono covi di masnadieri, come Terenzio Grossi e nei quali cercarono riparo gli abitanti di Colbordolo, durante la Seconda guerra mondiale. Le strade che percorrono questi crinali permettono oggi di ammirare scorci di una campagna umida, brillante e l’amenità di questi borghi e delle poche case sparse, incastonate tra le pieghe del paesaggio, rievocano antiche civiltà ormai perdute. Percorsi suggestivi in ogni periodo dell’anno, da vivere a piedi o in mountain bike.
“Adesso non ci accampiamo più per la notte. Bensì ci siamo fermati sulla terra dimenticando il cielo.” (H.D. Thoreau)